Giornata del ricordo

La Storia è il Ricordo dei popoli. Venerdì 10 febbraio, a Intra, la classe 3A AFM ha rappresentato la nostra scuola alla cerimonia ufficiale per il ricordo delle vittime delle Foibe. Il nostro prof Cosimo Dellisanti ha tenuto l'orazione ufficiale, rivolgendo soprattutto ai ragazzi l'appello a ricordare e a non cedere mai all'odio e alla rabbia.

DISCORSO SULLA GIORNATA DEL RICORDO

Grazie, Fabio. Ringrazio tutti, il Sindaco Marchionini, le autorità, il Comitato, e naturalmente le 
scuole e le studentesse e gli studenti presenti.  
 
Il dodici febbraio del duemila e tredici, dieci anni fa, due giorni dopo il Ricordo, moriva a ottantasei 
anni una donna. Un’insegnante anche lei, una maestra della provincia veneta. La sua non è una storia 
nota. Io stesso l’ho scoperta pochi giorni fa.  
 
Ora, io non sono né uno storico di professione, né sono un divulgatore. Sono un insegnante di Storia, 
la vera protagonista della giornata. La Storia è il Ricordo dei popoli, e un popolo senza ricordi è in 
pericolo  come  chi  soffre  d’amnesia:  può  essere  manipolato,  può  essere  condotto  verso  scelte 
autodistruttive e non imparerebbe mai dai suoi errori.    
 
Vi racconterò la storia di Mafalda Codan. Una storia con la esse minuscola. Perché sono le storie 
piccole che compongono, come tante tessere, il grande mosaico della Storia, con la esse maiuscola, 
quella che imparate a scuola.  
 
Dieci anni fa, è morta Mafalda Codan, una maestra di scuola elementare dall’aspetto tenero, come 
forse ne avete avute voi. Mi chiedo quanti dei suoi alunni, da grandi, studiando, hanno scoperto la 
verità sulla loro maestra. 
 
Mafalda era italiana d’Istria. Nel Quarantatré, quando cadde il Regime, aveva la vostra età, sedici, 
diciassette anni, e in Istria riesplose l’odio anti-italiano. Un odio che risaliva a generazioni prima, in 
realtà. A secoli prima. Italiani e slavi hanno convissuto sulle coste dell’Adriatico per centinaia d’anni, 
sotto la Repubblica di Venezia.  
 
Le tensioni erano già venute fuori durante il Risorgimento. Siamo tra il Milleottocento quarantotto e 
il Sessantasei. L’Imperatore austroungarico Franz Joseph, il marito dell’imperatrice Sissi, se avete 
visto la serie tv, non è mai stato un amante dell’Italia unita, soprattutto se a farne le spese era il suo 
impero.  
 
Era il periodo dei grandi nazionalismi, dei moti, delle Guerre d’indipendenza, del revanscismo, cioè 
della “rivincita” dei popoli nazionali che rivendicavano l’indipendenza dai grandi imperi. Il nostro 
revanscismo prende il nome di irredentismo, cioè il sentimento politico di chi mirava a liberare alcune 
zone considerate italiane, ma ancora sottomesse all’Austria-Ungheria.  
 
Per combattere gli irredentisti, Franz Joseph diffondeva un certo tipo di propaganda, che fomentava 
il sentimento anti-italiano tra gli slavi della Venezia Giulia. C’è sempre la propaganda di mezzo, 
ragazzi:  la  parte  più  interessante  della  Storia  consiste  nello  scollare  dai  muri  i  manifestini 
propagandistici, di ogni parte politica, e scoprire il lerciume che c’è dietro. 
 
Nel  Novecento  quelle  tensioni  aumentarono.  La  Prima  Guerra  Mondiale,  la  Vittoria  Mutilata, 
l’Impresa  di  Fiume,  e  poi  il  Regime,  che  estremizzava  i  valori  risorgimentali,  non  fecero  che
esasperare sotto ogni punto di vista i rapporti tra gli abitanti di quella terra di confine, sotto ogni punto 
di vista: politico, sociale e anche economico.  
 
Infatti, nel Quarantatré, con la caduta del Regime e il vuoto di potere che ne derivò, scoppiò una 
jacquerie, una rivolta contadina e operaia, successivamente cavalcata politicamente dal regime di 
Tito, di matrice comunista, che andava formandosi in Jugoslavia. 
 
Tra  le  vittime  di  questa  ondata  d’odio  vi  furono  il  padre,  gli  zii  e  un cugino  di  Mafalda.  Erano 
commercianti che non avevano niente a che vedere col Fascismo, almeno pubblicamente, ma erano 
italiani e agiati, e tanto bastò a farli condannare come sfruttatori di poveri, e a farli infoibare dal 
popolino inferocito. 
 
Mafalda fuggì, insieme alla madre e al fratello Arnaldo. Si rifugiarono a Trieste, ma qui, due anni più 
tardi, il sette maggio Quarantacinque, il giorno prima della resa della Germania, lei il fratello furono 
individuati come figli dei nemici del popolo e arrestati. Ha raccontato tutto in un diario: le legarono i 
polsi col filo di ferro, la condussero in trionfo, come una bestia da esibire, in tre città diverse, e ogni 
volta il popolino la insultò, le sputò addosso, la bastonarono.  
 
E quella gente probabilmente non sapeva neanche perché la odiava: la propaganda aveva inculcato 
alle persone, arrabbiate, che gli italiani andassero odiati, e tanto bastava. È ciò che succede quando si 
fa passare la rabbia per un valore politico. La banalità del male che prende vita.   
 
Poi bisognava far sparire lei e altri prigionieri scomodi. Li fecero imbarcare su una nave-cisterna, una 
specie di chiatta. Una di quelle navi larghe, piatte che si usano per trasportare petrolio o rifiuti. Ecco, 
su quella non c’erano rifiuti, ma italiani. E puntavano verso una zona minata. La chiatta ne urtò una, 
si inclinò, e in tanti finirono in mare, anche Mafalda, che fu ripescata e riportata a riva, dove la 
sottoposero di nuovo a insulti, sputi e bastonate.  
 
La imprigionarono a Pisino, una città al centro esatto dell’Istria, dove c’è una foiba molto celebre. 
Anzi, è la Foiba. Si chiama proprio così, Foiba, un abisso che si apre su un fiume. Era nota in tutto il 
mondo per la sua bellezza. Pensate, Jules Verne, l’autore di Ventimila Leghe sotto i Mari vi aveva 
ambientato la scena di un suo romanzo. E nella Foiba finì Arnaldo, a diciassette anni, il fratello di 
Mafalda. E i responsabili, dopo averlo ucciso, tornarono a raccontarle cosa avevano fatto, ridendole 
in faccia: Tuo fratello quanti anni aveva? Non voleva morire, sai? Saltava anche dopo morto.  
 
Mafalda sopravvisse a tutto questo. Sopravvisse a quattro anni in prigione. Quattro anni di vita negata. 
Tornò libera nel Quarantanove, grazie a uno scambio di prigionieri, ma la guerra era già finita da un 
pezzo, l’Italia era in pace e in democrazia, da quattro anni.  
 
Potete leggere la sua storia dal diario che ha redatto. È un racconto molto, molto vivido. Ed è diventata 
insegnante, il mestiere migliore, se si vuole tramandare il Ricordo, perché noi insegnanti siamo un 
po’ come il Demone di Socrate, quella voce interiore che stimolava nel grande filosofo la Ragione, 
perché compisse le scelte migliori.  

E dunque, sulla base della storia, del ricordo di Mafalda, quale scelta questo Demone vuole stimolarvi 
a fare, oggi e per sempre? A non cedere mai alla paura, alla rabbia e all’odio. Non sono valori, sono 
emozioni. Emozioni normali, comuni, banali, ma guai a prendere decisioni quando si sotto il loro 
effetto, soprattutto se le decisioni coinvolgono anche gli altri.  
 
E mettete sempre in discussione i messaggi e i linguaggi che puntano alla vostra pancia, piuttosto che 
al cervello, o al cuore. Lo so, ve lo siete sentito ripetere da quando siete nati, ma per quanto banale e 
stupido, il Male è maledettamente resistente.       
 
Oggi, magari quando sarete tornati in classe, insieme ai vostri insegnanti fate un giro su internet. 
Cercate le storie di Mafalda Codan, o di Angelo Adam, l’ebreo antifascista scampato alla Shoà e 
scomparso nelle foibe, o delle sorelle Radecchi, o di Norma Cossetto.  
 
Cercateli, fate vostre le loro storie, che diventino vostri ricordi personali.  
 
Francis Bacon, uno dei padri del pensiero scientifico, nel Seicento diceva che gli Antichi sono coloro 
che vengono dopo, perché hanno a disposizione più Storia. Noi abbiamo molti più ricordi, molte più 
possibilità di fare le scelte migliori per arrivare all’unico vero valore che ogni individuo e ogni società 
dovrebbe perseguire: la Pace.  
 
Grazie a tutti.